06-04-2014
GUIDA AI DIRITTI ED AI DOVERI DEI DETENUTI SECONDA EDIZIONE: Nella sezione UTILITA' del sito è disponibile la seconda...
 
XII CONGRESSO ORDINARIO DELL'UNIONE DELLE CAMERE PENALI ITALIANE
Il tema del carcere nel programma presentato dal Prof. Avv. Oreste Dominioni, candidato alla carica di Presidente per il biennio 2008-2010
 
Napoli, 24 settembre 2008 .....Si apre il 26 settembre p.v., a Parma, il XII Congresso Ordinario dell'Unione delle Camere Penali Italiane. Il Presidente uscente, Prof. Avv.Oreste Dominioni, ripresenta la sua candidatura e nel programma dedica al carcere alcuni passaggi che ripropongono la posizione dell'Avvocatura italiana sul tema della detenzione ,sempre più sottovalutato dal mondo politico. Ne riportiamo il contenuto: LA CRISI DEL CARCERE 1.- I più recenti dati indicano che ormai il numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane ha raggiunto nuovamente i numeri del periodo pre-indulto. Ciò in quanto le cause del sovraffollamento carcerario, come più volte denunciato dall’UCPI, non sono state rimosse. Vanno ribadite le principali cause del sovraffollamento. L’uso indiscriminato e massiccio della misura cautelare estrema della custodia in carcere in contrasto con l’art. 27 della Costituzione è segnalata da un rilevantissimo numero di detenuti in attesa di processo. L’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario e la legge ex Cirielli sulla recidiva limitano fortemente il meccanismo di sospensione dell’ordine di carcerazione e il conseguente accesso alle misure alternative alla detenzione come previsto dalla legge Gozzini costringendo soggetti già reinseriti nel contesto civile e sociale, condannati per fatti commessi molti anni fa, a rientrare in carcere. La legge Bossi-Fini che prevede il ricorso alla pena detentiva per i cittadini extracomunitari soggetti ad espulsione, è da annoverare certamente fra le cause del sovraffollamento. La normativa sugli stupefacenti (legge Fini-Giovanardi) che consente l’arresto anche per chi detiene sostanza stupefacente leggera è certamente tra le cause del sovraffollamento. La modifica delle leggi richiamate, come di quelle del “Pacchetto sicurezza”, è la prima condizione possibile per ridurre il sovraffollamento ed impedire il collasso del sistema carcerario. Tale scelta di politica criminale va certamente accompagnata con un concreto impegno per la sicurezza dei cittadini. Occorre scegliere un percorso di prevenzione attraverso un razionale ed adeguato impegno delle forze di polizia a presidio del territorio al fine di ridurre il numero dei reati che allarmano l’opinione pubblica. Nel pieno rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti e in consonanza con le normative della Comunità Europea va regolata la presenza dei cittadini etracomunitari sul territorio italiano, privilegiando provvedimenti di natura amministrativa per chi è soggetto ad espulsione piuttosto che ricorrere alla pena detentiva. 2.- Le misure alternative al carcere previste dalla legge Gozzini dimostrano, nella loro applicazione pratica, una forte capacità rieducativa e di risocializzazione. Mentre chi esce dal carcere dopo avervi scontato l’intera pena fa registrare un elevato tasso di recidiva, chi è stato sottoposto a una misura Gozzini fa registrare una recidiva decisamente minima (0,6%). Questi dati devono pertanto determinare una precisa scelta politica: potenziare le misure Gozzini (adibendovi tra l’altro esperti in maggior numero e sempre più qualificati), favorendo il duplice risultato di tutelare la collettività e decongestionare le carceri, anziché ridurla come invece prevedono proposte pendenti avanti il Parlamento, già oggetto di un documento critico della Giunta. VIII. DETENZIONE SPECIALE: art. 41 BIS O.P., NORMA INUTILE E INUMANA Nelle ultime settimane esponenti parlamentari e di governo, e lo stesso Ministro della Giustizia, hanno manifestato una particolare determinazione nel “rilanciare” il regime detentivo speciale – contrastante con i principii costituzionali e con i diritti umani- del c.d. “41 bis”. L'Unione delle Camere Penali Italiane ribadisce come ogni trattamento del detenuto che non realizzi compiutamente le finalità rieducative della pena e non rispetti i principi di umanità previsti all’articolo 27 della Costituzione e dai trattati internazionali, non possa essere accolto nel nostro sistema. Per questo, anche in considerazione delle concrete modalità di applicazione del regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario dalla sua entrata in vigore ad oggi, così come documentate da numerosi fonti sia interne che internazionali, e dei reiterati enunciati sul carattere temporaneo della normativa, non si può che ribadire con forza la richiesta di abrogazione della stessa. Ciò posto, se il dichiarato scopo del disegno di legge in discussione presso la Commissione Giustizia del Senato è quello di garantire la sicurezza nelle carceri e di impedire i rapporti tra i detenuti e gli appartenenti ai diversi sodalizi criminosi, fuori e dentro il carcere, non può essere accolta alcuna impostazione che, lungi dal realizzare tali finalità, si traduca solo in un regime di detenzione - più afflittivo dell’ordinario - per alcuni detenuti in ragione dei reati loro addebitati. Appare indiscutibile, infatti, che accettando una impostazione di tal genere si manterrebbe nel sistema una normativa che, anziché garantire la sicurezza o interrompere i collegamenti tra i detenuti ed il sodalizio criminale di appartenenza, è volta a istituire un regime carcerario diversificato per alcune categorie di detenuti, oltre che a condizionare le scelte processuali di coloro nei cui confronti viene applicato. Quest’ultimo aspetto, che è sempre stato l’obiettivo non dichiarato apertamente ma evidentemente sotteso alla norma di cui al 41 bis (ed ancor più manifesto nella pratica attuazione della stessa), è reso inequivoco nella proposta di legge attualmente in discussione laddove, in maniera del tutto incongrua rispetto alla richiamata ratio di maggior tutela della sicurezza, si stabilizza e si estende l’ambito applicativo della normativa, addirittura invertendo l’onere della prova della interruzione dei collegamenti con la criminalità organizzata. Del resto, il legame tra le condizioni di vita dei detenuti sottoposti al 41 bis ed il loro atteggiamento processuale è stato testimoniato da organismi internazionali, come il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti, il quale - fin dal 1995 - ha preso atto con preoccupazione di una dichiarazione rilasciata dalle autorità italiane in sede ONU, secondo cui “Grazie a questa misura speciale, un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità giudiziarie fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali faceva parte” . Tanto premesso, in sede programmatica si fa richiamo al recente documento della Giunta UCPI approvato il 31 luglio 2008. Ferma la posizione di principio concernente l'abrogazione, vanno comunque posti degli obbiettivi minimi da perseguire in sede parlamentare, pur nella consapevolezza della estrema difficoltà della iniziativa in ragione della perfetta sovrapponibilità delle posizioni della maggioranza con quelle della opposizione su questa materia. In proposito, per avere un quadro della situazione, occorre tenere anzitutto presente la relazione al disegno di legge Vizzini/Gasparri n. 915 (“Riforma dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario”), comunicato alla Presidenza del Senato il 16 luglio 2008 che presenta aspetti sconcertanti, più ancora dell’articolato legislativo. Da un lato –con buona pace dell’autonomia della politica- viene esplicitato chi siano i “danti causa” della proposta di modifica (espressamente menzionate “le Procure…impegnate sul fronte antimafia”), dall’altro si stigmatizza che “le norme esistenti siano state variamente interpretate dai Tribunali di Sorveglianza, che in alcuni casi (sic) hanno dichiarato l’inefficacia dei decreti applicativi o di proroga del regime”. Nessuna valutazione per riflettere se, magari, tali decisioni fossero o meno giuste, o i decreti immotivati o illegittimi: il fatto stesso che “in alcuni casi” i Tribunali abbiano revocato viene considerato di per sé “eversivo”, e perciò da evitare a tutti i costi. Come se qualcuno affermasse che, dato che in qualche caso i giudici assolvono gli imputati, sarebbe bene abrogare le sentenze di assoluzione. Ancor più stupefacente il successivo passaggio, in cui si legge: “La normativa vigente, al fine di garantire il detenuto da proroghe inutilmente afflittive e vessatorie, prevede, in capo all’amministrazione, l’obbligo di verifica della permanenza del soggetto della capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione criminale…”. La modifica proposta introduce un’inversione dell’onere della prova: per sottrarsi ai provvedimenti di proroga… è necessario provare (da parte del detenuto! n.d.r) la cessazione della partecipazione all’organizzazione criminale. Insomma, se la norma vigente vuole evitare proroghe inutilmente afflittive e vessatorie, a modifica vuole eliminare tale “distorsione”, dando deliberatamente corso a proroghe e applicazioni del regime detentivo afflittivi e vessatori. In definitiva, comunque, tre sono i capisaldi della proposta normativa in discussione: I provvedimenti applicativi (che, storicamente, erano prima di sei mesi e poi, dalla riforma del 2002, di un anno) possono essere imposti per un periodo da due a tre anni, con prorogabilità successiva, di volta in volta, di un anno. Con buona pace dei principi della Corte Costituzionale sulla eccezionalità e la necessaria temporaneità del regime; L’onere della prova circa la “cessazione del collegamento” con l’associazione criminale (o terroristica, etc.) spetta al detenuto, sia esso in attesa di giudizio o condannato. E’ noto che già nel regime vigente l’amministrazione forniva tale “prova” in modo superficiale e apodittico (di fatto imponendo al destinatario del provvedimento la “probatio diabolica” della cessazione dei contatti). Se non altro, però, nei casi più clamorosi, i Tribunali avevano potuto sindacare questo modo di procedere. Oggi, sostanzialmente, si vuole arrivare ad un risultato: l’applicazione sine die del regime di detenzione speciale (lo stesso stigmatizzato dalla Commissione europea contro la tortura), poiché la prova di un fatto negativo (cessazione dei contatti) è ovviamente impossibile da fornire in positivo da parte del recluso, ed i Tribunali si Sorveglianza (anzi, “il” Tribunale di Sorveglianza, come si vedrà a breve) saranno ridotti al rango di Tribunali speciali, con un ruolo formale di passiva ratifica delle decisioni dei burocrati ministeriali. I reclami (come visto, di impossibile accoglimento, vengono concentrati, a livello nazionale, nel Tribunale di Sorveglianza di Roma “per evitare che vi possa essere una eccessiva eterogeneità di orientamenti giurisprudenziali”: tale disposizione chiude evidentemente il cerchio in ordine al disegno di rendere assolutamente fittizia la possibilità di verifica giurisdizionale. Di fronte a tali proposte di modifica l’UCPI ribadisce che il sacrosanto diritto dello Stato a difendersi dalla criminalità non passa certamente attraverso provvedimenti criminogeni, inutili al fine che si propongono e finalizzati alla “produzione di pentiti” come quelli in discussione. Va allora ribadito che, anche a non volere abrogare, come sarebbe giusto, il regime di cui all’art. 41 bis, sono però possibili alcuni provvedimenti che prendano le mosse da alcuni principii basilari, principii del resto contenuti in alcune proposte che l’UCPI aveva redatto e trasmesso in Parlamento nelle precedenti legislature: - sottrazione dei provvedimenti applicativi del regime alla autorità amministrativa e attribuzione del relativo potere ad un giudice, su richiesta del pubblico ministero; - obblighi di motivazione puntuali sui collegamenti effettivi con il sodalizio di appartenenza (o presunta appartenenza per chi è in attesa di giudizio), senza la possibilità di ricorrere a formule di stile o a richiami generici o di tipo sociologico (come sinora accade) per applicare o prorogare il regime; - possibilità effettiva di reclamo sui provvedimenti in quanto tali e sulla loro motivazione e sulle modalità concrete di esecuzione del regime che comprimano diritti soggettivi; - obbligo di verifica caso per caso –e non per tipologie astratte di reati- circa i presupposti applicativi del regime.